1. |
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Appena entriamo nella Panda di Gigi do fuoco allo spino inspirando profondamente il primo tiro. Mi coglie subito. Lo passo a Ferdi che intanto si è acceso una sigaretta. Facciamo a cambio e quella Chesterfield in confronto mi sembra aria. Chiedo a Gigi di mettere un po’ di musica. Lui, finalmente rilassato, mi tende una custodia vuota di una cassetta pronunciando queste precise parole: “Senti che roba… e poi dicono che lo spirito punk è morto. Cazzate!”. Gigi e Ferdi stanno a ruota di musica ancor più di quando eravamo ragazzini. Io ho mollato. Ci vuole troppa costanza, per non parlare poi dei soldi. La prima non l’ho mai avuta e di liquidi ne girano davvero pochi in questo periodo. Solitamente ascolto roba vecchia, non ce la faccio proprio a stare dietro alle novità, al massimo mi faccio masterizzare qualcosa quando capita. Loro due invece sono duri a morire. Per lo più armeggiano con vecchi vinili. Ultimamente hanno avuto un ritorno di fiamma per i 45 giri. Sembra assurdo ma c’è una marea di pazzi in giro per il mondo che ancora li produce. Gigi e Ferdi prendono quasi tutti i dischi su internet, ma l’idea di scaricarsi gli mp3 non li sfiora neanche: questo sì che è un buon uso della rete. Vinile per casa e cassetta per la macchina, lo schema è sempre quello. Com’è che si dice? Squadra che vince non si cambia! Sulla custodia di un TDK D 46 c’è scritto The Statics a caratteri cubitali, appena sotto, The Beginning and The End. Quello che esce fuori dalle casse dell’autoradio sparata a tutta, è una miscela esplosiva di sconquassato garage punk che mi esplode nel cervello per poi scendermi a rotta di collo giù per tutto il corpo. Penso a quei coglioni vestiti da checche che si calano pallette in discoteca e si stordiscono a suon di martellante unz-unz-unz. Penso agli invasati neo folkers che si sciolgono al cospetto di qualunque brufoloso imbracci una chitarra acustica e penso agli intellettualoidi… agli intelletualoidi che sbroccano di brutto quando un coglioncello qualsiasi li piglia per il culo amplificando lo sciacquone del cesso. “Ma cosa cazzo ne sapete voi del Rock and Roll!”, mi viene da dire tra me e me. Arriviamo al Potatos senza che nessuno dica più una parola. Ognuno cazzeggia per i fatti suoi. Ognuno viaggia con la propria mente. L’erba era fantastica, non c’è che dire, e pensare che se vendessimo tutta quella rimasta sfameremmo un’intera famiglia dello Zimbawe per almeno un paio d’anni. Ci mettiamo in fila indiana davanti alla grande porta color metallo del locale, in attesa che i due energumeni con la scritta ‘Security’ sul petto ci facciano entrare. Il più insignificante ci squadra da capo a piedi con un’aria a metà strada tra il nervoso e lo schifato poi, con voce sicura da controllore di autobus, tuona: “Siete insieme voi?”. Martina sfodera un efficace sorriso da ninfetta: “Sì, siamo in quattro”. Entriamo come degli scolaretti in visita ad un museo, dirigendoci subito al bar. Il Potatos è il locale più a la pàge della città, o per lo meno così è considerato dalla maggior parte della gente che sta in vacanza da una vita. In realtà non è niente di speciale, però l’aria che si respira qua dentro diventa sempre piacevole quando si ha la giusta quantità di benzina in corpo. E noi, questa sera, abbiamo tutti la giusta quantità di benzina in corpo.
When I’m in the car / Sounds are alla round / Loud, loud they are / When I’m in the car / I’m in the car / I’m in the car.
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2. |
Le 2 Sofia
02:41
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L’ho incontrata due volte la saggezza. Tra le cosce morbide
di una moldava conosciuta sui viali di Bologna. E nel sorriso
materno di una professoressa greca con la quale ho condiviso
il mestiere di lavapiatti a Cellino Attanasio.
They don’t want my money back…
Sofia
Liquid blue eyes and a name as a sign
They both teach me something I will never forget
Watch my… watch my… watch my… watch my…
m’bacc a ‘stu cazz!
Watch my… watch my… watch my…
and They laugh everytime
They don’t want my money back…
Sofia
Liquid blue eyes and a name as a sign
They both teach me something I will never forget
Watch my… watch my… watch my… watch my…
m’bacc a ‘stu cazz!
Watch my… watch my… watch my…
and They laugh everytime
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3. |
Oplà
06:44
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In casa nostra si è sempre occupata della lavatrice quella
santa donna di mia nonna Iole. E per casa nostra intendo la
casa da ragazzo. Mia nonna era una donna elegante, che ci
teneva, forse perché era stata una sarta… una brava sarta.
Poi, quando è venuta a vivere in città, ha mollato il lavoro per
dedicarsi alla famiglia e a noi nipoti.
Ricordo la sua sopraffina eleganza anche quando armeggiava
con bacinelle stracolme di vestiti da lavare o indumenti
appena lavati da stendere. Ci metteva dedizione. Voleva che
fossimo sempre lindi e pinti. Suo marito. Mio padre. Mia madre.
Io. Mio fratello. Sempre con indumenti pulitissimi e stirati
a puntino. Mio nonno nicchiava un po’. Lui era della vecchia
scuola secondo cui l’uomo un minimo deve puzzare. Solo un
minimo però.
Quando queste storie di lavaggi e stiraggi gli parevano eccessive
urlava a squarciagola “O per la madonna, Iole!”, che
in dialetto suonava tipo: “Oplà madonn Io’!”.
Mia nonna faceva finta di non sentirlo. E lui ci caricava sopra
due-tre cristi come si deve. Di quelli da farsi il segno della
croce subito dopo.
C’era da capirlo mio nonno, oramai impietosamente ribattezzato
da me e dai miei amici, Oplà. Aveva fatto la fame,
la guerra ed era pure stato prigioniero in Albania. Insomma,
aveva una grande considerazione del denaro. E seppur generoso
oltre il limite con chi gli era accanto, non si comprava
mai un cazzo per sé. E se al suo posto lo faceva mia nonna,
eran giù altri cristi fragorosi e musi lunghi per un paio di
giorni.
Così, quando ci siamo fatti grossi io e mio fratello, gli passavamo
le nostre camice, i nostri pantaloni e financo qualche
paio di scarpe.
Oplà era in pace. Mia nonna abbozzava. I miei genitori anche.
E il padreterno poteva starsene su in cielo senza che gli
fischiassero le orecchie.
Ma un giorno avvenne qualcosa di inedito. In camera caritatis
nonna Iole mi disse che il nonno aveva comprato al
mercato un paio di bermuda coloniali e che tutto vispo era
tornato a casa con un radioso sorriso stampato in faccia. Ma
dopo un po’ era sopraggiunto un problema. Questi bermuda
coloniali, per quanto comodi, avevano le tasche cortissime.
Oplà lo aveva appurato solo dopo l’acquisto e, accortosi di
non poter riempire le tasche con tutte le sue cianfrusaglie, si
era rintanato in cucina a bestemmiare tra sé e sé. Al che la
nonna ebbe la geniale idea di fargli credere che a me sarebbero
andati benissimo e che, anzi, avevo proprio espresso il
desiderio di acquistarne un paio del genere.
Andò a finire che feci una pantomima da Oscar, intortai il
nonno sulla questione e mi presi ‘sti bermuda dalle tasche
assurde. Quei bermuda ce li ho ancora. Li metto dentro
casa quando arrivano i primi caldi. Mi ricordano il nonno. E
poi sono freschi e comodi. Il tessuto è un misto cotone-lino
made in China, leggero come carta velina. Bagnati, però,
sono pesantissimi. Specialmente quelle tasche da nano che,
inzuppate, sembrano di piombo.
Ne ho la conferma ora che li ho appena tirati fuori dalla lavatrice
per farli esordire in questa estate che si preannuncia
più torrida del solito. Un’estate in technicolor fatta delle solite
canzonette e dei soliti vestitini dai colori sgargianti. Un’estate
che non sarebbe piaciuta per niente a mio nonno. Con quella
faccia in bianco e nero che si ritrovava, Oplà, l’avrebbe
odiata.
Under a shining sun, an elegant woman appeared in town
/ Long haired, glittering shoes, she looked back / Close to
her a skinny man, He took care of… look at his hands! / She
saw his face on her right / Under that shining sun, that elegant
woman appeared in town / Face on the ground, blood
on the shoes of the man / Close to her a smoking gun / Still
handled by the man / Take care Tv I go out / Wearing those
pants my grandma gave me.
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4. |
Suddenly
03:21
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Many faces I know
I know each one
Just having a look around with my face on the ground
And chattering, chattering, chattering around
Suddenly
From nowhere
Her hand
She’s touching my shoulder
She’s asking me questions
And that fuckin’ question
How to reply? How to reply? How to reply?
A nice word coming from the vein of her neck
A nice word coming from the vein of her neck
A nice word coming from the vein of her neck
A nice word coming
Suddenly
I understand
It happens suddenly
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5. |
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Entro nella Clio di Ferdi e mi concentro nel cercare di ricordare
che canzone sia quella che sputano le casse dell’autoradio.
Senza dubbio è un pezzo che conosco. Quella voce sofferente e
sguaiata mi è molto familiare, malgrado ora non riesca proprio
a focalizzare il gruppo in questione.
«Chi sono questi?», pronuncio passandomi il palmo della mano
prima sulla fronte e poi sui capelli.
«Ma come… non te li ricordi!».
«Se te l’ho chiesto evidentemente no!», gli dico sgranando gli
occhi e contraendo i muscoli della faccia.
Ferdi si adopera in un nostalgico sorriso: «E pensare che la copertina
di questo disco te l’eri anche fatta disegnare su una
maglietta…».
Le uniche due parole che mi escono di bocca sono: «Oh cazzo!».
Ricordo tutto perfettamente. Quel disco lo avevo comprato nel
1990. Sono sicuro dell’anno per via dei Mondiali che ci hanno
scippato vergognosamente. Quel disco lo avevo trovato ancora
nuovo, incartato nel suo bel cellophane, in un negozietto
sull’orlo del fallimento che aveva messo tutto in offerta. In una
specie di sottoscala stavano ammucchiati un casino di LP sconosciuti, e per lo più di importazione, che venivano svenduti
a cinquemila lire ciascuno. Fui rapito subito dall’immagine di
copertina. Si trattava di una foto raffigurante la band con delle
palme alle spalle. In alto, sulla destra, c’era scritto Miami, poco
più in basso: The Gun Club.
Avevo sedici anni e i Gun Club rappresentavano per me molto
più di un gruppo musicale. Folgorato da Miami, acquistai anche
Fire Of Love e Las Vegas Story. Per diverso tempo quei dischi
rimasero nella top ten dei miei ascolti. Quei dischi li tenevo
come una reliquia e me ne vantavo con i compagni di classe
che si spingevano, al massimo, ad ascoltare i Rem.
Per un attimo mi viene in mente di risalire a casa, mettere sul
piatto Fire Of Love e adagiare la puntina dolcemente su Sex
Beat. L’idea abortisce sul nascere, per il momento mi basta riascoltare Jeffrey Lee Pierce e soci in macchina di Ferdi.
«Come mai hai ricacciato questa cassetta?».
«Era un vita che non ascoltavo questo nastro, ultimamente hanno
ristampato tutti i dischi dei Gun Club… pare che siano tornati
di moda. La stampa specializzata sta quasi santificando
Jeffrey Lee Pierce, e pensare che quando è morto gli hanno
dedicato soltanto poche righe!».
«È morto Jeffrey Lee Pierce? E Quando?».
«Cazzo… vedo che sei aggiornato!». Ferdi ridacchia amaro,
«ormai è diverso tempo, saranno otto-nove anni… forse più».
La notizia della morte di Jeffrey Lee Pierce mi lascia senza fiato.
Non riesco a spiegarlo chiaramente. La sensazione che ho è
come se fosse morto un vecchio amico che non si rivede da
anni. Come se fosse morto un amico al quale si è stati molto
legati nel periodo più bello e spensierato della propria vita. Alzo
il volume dell’autoradio e mi lascio trasportare dalla voce anfetaminica di Mr Lee Pierce.
«L’hai già preso il caffè?», Ferdi urla senza provare ad abbassare
il volume, per paura che gli tranci la mano.
«Si… ma un amaro me lo faccio con piacere».
From the stereo in the car / Bad America / From the stereo in
the car / Bad America / Bad America
Jeffrey Lee Pierce è morto il 31 marzo del 1996. Non aveva ancora
compiuto… trentotto anni.
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6. |
At The Door
02:14
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At the phone they advice me not to call
His sons advice me not to call him
But I call him and tell him
That his wife, his ex wife, came to my house
AIDS
You should come back!
AIDS
You should come back!
At the door, standing at the front door, She won’t wait anymore
At the door, You cannot ignore, He looks better than the year before
At the door, He doesn’t want to come in, She’s not surprised at all
At the door
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7. |
La sudarella
04:51
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La macchina di Mario è parcheggiata proprio di fronte all’entrata
del Potatos mentre quella di Gigi è un po’ più distante. Con
la scusa che Mario non conosce bene la strada salgo sulla sua
Golf o meglio, mi ci intrufolo come un topo d’appartamento. Ci
diamo appuntamento con gli altri di fronte al Lido Sirena.
Con la scaltrezza di un ghepardo faccio in modo di capitare
dietro vicino a Margot. Lei pare non dispiacersene affatto. Sono
tremendamente imbarazzato. Nei primi minuti di cammino, l’abitacolo
è pervaso da un silenzio innaturale. Pare che ognuno
di noi stia lì lì per aprire bocca, ma le parole gli rimangano impigliate
tra i denti e le labbra.
È qui che mi assale il solito attacco di sudarella, una croce che
mi porto addosso da troppo tempo. Nelle situazioni imbarazzanti,
di punto in bianco, inizio a grondare di sudore in maniera
incontrollabile. Sento una vampata di calore improvvisa che
parte dalla testa e scende su tutto il corpo. I capelli si bagnano
come se qualcuno mi ci avesse rovesciato sopra una bottiglia
d’acqua. Il volto diventa paonazzo con delle chiazze più vistose
sotto gli zigomi e le orecchie prendono letteralmente fuoco.
A dire il vero non tutte e due le orecchie si infiammano. Inspiegabilmente
una mantiene il suo colorito originale, facendo risaltare
ancor di più il contrasto. Non ricordo di preciso quando
è iniziato, so solo che accade spesso in luoghi chiusi, con
persone che conosco poco e in situazioni nella quali non ho
grande libertà di movimento. In condizioni del genere, se sono
costretto fisicamente in un luogo o se non posso allontanarmi
per vari motivi, dieci a uno che succede il patatrac. Oramai è
diventata una cosa talmente ingestibile che prima o poi toccherà
stendermi sul lettino di uno strizzacervelli e ripercorrere
trent’anni di vita alla ricerca della causa recondita.
Finalmente Mario spezza quel silenzio, facendomi tirare un sospiro
di sollievo: «Ragazze voi… fumate?».
«Oui», rispondono in coro indicando il pacchetto di Gauloises
che Sylvie tiene in mano.
«No, scusate, forse non ci siamo capiti. Fumate anche qualcos’altro
ogni tanto?».
Lo scemo fa un occhiolino degno del Lando Buzzanca dei tempi
d’oro.
We’ll be fathers after all / We’ll be fathers after all / We’ll be
fathers after all / We’ll be fathers after all.
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8. |
Liverpool Pub
06:53
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Si sono fatte le undici tonde tonde e come al solito nel pub di
Pino si fa bisboccia. Molte delle facce conosciute, però, sono
altrove a sbiadire lentamente il certificato delle loro analisi al
fegato. Mi guardo intorno roteando di 180 gradi. Età media sui
ventidue-ventitrè, con picchi molto più bassi. Le lattine di Red
Bull e i resti di hamburger sparsi sui tavoli, parlano chiaro. Un
chiacchiericcio confuso sale dal velluto rosso delle pareti fino al
soffitto, creando uno stranissimo effetto dolby surround da cinema
di quart’ordine. Sorseggio la birra per far passare il tempo.
Poi mi ipnotizzo fissando il faccione sudato del cuoco, che
si è appena affacciato dalla sua tana a fumarsi furtivamente
una sigaretta. Un rivolo di sudore gli solca la tempia.
«Ciao, come va?», il mio vecchio compagno di scuola Aldo Romualdi
spunta dal nulla e mi tende la mano.
«Non c’è male… è una vita che non ci si vede». Non so proprio cosa dire.
«Voi due vi conoscete, no?».
Annuisco. Anche Barbetta annuisce e aggiunge “di vista”, scandendo benissimo le parole.
«Per me una pinta di Guinnes e voi?». Aldo approfitta della presenza di Pino ricomparso dietro le nostre spalle.
«Un gin tonic», blatera Barbetta.
«Io sono a posto, grazie», dico impugnando la mia birra smezzata. «Possiamo sederci?», Aldo indica un tavolo che si è appena liberato. «Prego», ribatte Pino.
Non potendomi proprio divincolare mi accomodo anch’io.
Barbetta attacca subito bottone: «In che ramo sei?».
Noto che mentre mi fa quella domanda del cazzo alza leggermente il capo all’insù. Sono indeciso su come rispondere. Sfoglio mentalmente alcune opzioni plausibili: programmatore di siti porno, imbalsamatore di uccelli, otorino laringoiatra, pilota di rally, maestro yoga, portantino all’ospedale.
Alla fine decido di dirgli la verità: «Lavoro a contratto in un ente pubblico».
Aldo Romualdi se la ride a denti serrati. Anche lui, come me, fa parte dell’esercito silente dei lavoratori a contratto presso gli enti pubblici di questa città: i famigerati Co.co.co sparsi a macchia di leopardo tra misteriose aziende regionali, bislacchi presidi di sanità pubblica, enti montani dislocati a casa del diavolo e polverosi uffici della Provincia e del Comune subissati di scartoffie. Siamo tutta gente parcheggiata
lì previo poderoso calcio in culo di politici, prelati e intrallazzatori
vari. Nessuno di noi si salva e di questo siamo perfettamente coscienti. Gli anni di precariato che ci portiamo sul groppone ci
hanno plasmato, se non nel corpo, quantomeno nella mente
e negli atteggiamenti. Camminiamo a testa bassa, parliamo
poco, anzi per lo più mugugniamo. Ci esponiamo di rado, mai
sotto elezioni, perché una parola di troppo potrebbe costarci
molto cara. In certi periodi le folate di vento sono talmente forti
che bisogna trattenere il respiro e aggrapparsi con le unghie
a qualunque appiglio ci si presenti di fronte. In tutto questo la
cosa simpatica è che tra noi ci riconosciamo subito da un piccolo
e apparentemente insignificante particolare: non indossiamo
quasi mai la camicia, non ci siamo nati e di questi tempi non
possiamo nemmeno permettercela. Le rare volte che un Co.co.
co osa mimetizzarsi tra i regolari con addosso la sua bella camicetta
azzurra d’ordinanza, si possono notare le vene del collo
rigonfie di rabbia che premono sul colletto.
Barbetta incalza: «Ah, sei nel pubblico allora!». Istintivamente lancio un’occhiata complice ad Aldo. Entrambi portiamo un maglioncino a V sopra una t-shirt. La mia è a maniche corte, suppongo anche la
sua. Ripenso alla affermazione di Barbetta. Che significa “sei
nel pubblico”? Detto così sa più di uno che fa il figurante nelle
trasmissioni di Maria De Filippi.
«E precisamente di cosa ti occupi?», dice proprio pre-ci-sa-men-te. «Amministrazione».
«Capisco…» annuisce soddisfatto, «io sono nel ramo assicurativo…
sai, infortunistica, sinistri, assicurazioni sulla vita, ma
anche fondi d’investimento… un po’ di tutto insomma», pausa
studiata «l’agenzia che dirigo opera a trecentosessanta gradi,
rispondiamo a qualunque esigenza del cliente», altra pausa da
copione, «vienimi a trovare uno di questi giorni».
D’improvviso si materializza il suo biglietto da visita, me lo porge con un sorriso che più finto non si può. Cartoncino pesante. Stampa a caldo. So già che fine farà.
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9. |
Di nuovo
02:33
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It’s not easy, not easy at all
It’s not easy to do what I do
How long They’ll wait to forget me.
Genny sposta il suo culone di qualche centimetro.
«L’ha fatto!» dice, «l’ha fatto di nuovo…».
Imbambolata guarda il piccolo Marino che si incastona la
punta delle orecchie dentro i padiglioni auricolari.
Il piccolo ci sa fare.
Strabuzza gli occhi ed ecco che le orecchie tornano nella
posizione naturale vibrando per qualche secondo.
Genny mi accarezza la mano con pudore, sembra aver paura
di una sua reazione.
Ma il piccolo pare non curarsene, continua imperterrito in quel
fantastico gioco.
Genny incrocia il mio sguardo e dice: «perché?».
Prendo in braccio Marino e lo bacio sulla fronte. In lontananza lo vedo proseguire nel suo passatempo preferito.
Non deve essere facile per lui fare quello che fa.
It’s not easy, not easy at all
It’s not easy to do what I do
How long They’ll wait to forgive me.
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10. |
Biciclette
03:39
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Alza in alto il bicchiere e si adopera in quel suo sorriso
sguaiato e triste. Ha gli occhi semi chiusi ed una chiazza viola, una specie di voglia, tra la guancia e il collo.
«Alla salute di voialtri!» dice mimando un signorile inchino.
Poi butta giù tutto d’un fiato, rutta sonoramente, si pulisce la
bocca con la manica della giacca e si rimette a sedere.
Qualcuno lo addita ridendo, altri in silenzio custodiscono
gelosi i loro quartini di pessimo rosso.
Passa del tempo senza che nessuno articoli un discorso
compiuto. C’è un silenzio grave interrotto soltanto dal tintinnio
dei bicchieri e dal fragore di alcune bestemmie che rimbalzano
tra le pareti del bar.
Mario si alza. Barcollando raggiunge il bancone. O è il bancone… che raggiunge lui.
Oh what a day today! Oh what a day today! Oh what a day
today!
«Una bicicletta…» biascica lentamente.
«Hey Gimondi!» dalle retrovie si alza la solita battuta che non
fa più ridere nessuno.
Mario se ne sta lì, immobile, a contemplare la fetta di limone
che sguazza tra il Campari e il Trebbiano.
È una costante, fa sempre così quando l’alcol ha superato il
livello di guardia.
Oh what a day today! Oh what a day today! Oh what a day
today! Goodbye… goodbye…
Oh what a day today! Oh what a day today! Oh what a day
today! Goodbye… goodbye…
Bye goodbye… bye Boozy bye.
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Amelie Tritesse Teramo, Italy
Amelie Tritesse is an Italian project made up of words and sounds, voices and instruments, stories and songs: a sort of read'n'rocking mix, soaked of alt rock, garage, post punk and indie folk. And everything happens while spoken lyrics met songs, and Italy met England. ... more
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